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Così la Parrocchia di Santa Cecilia a Potenza cammina accanto ai più fragili: a tu per tu con Don Gerardo Cerbasi


Da parroco, sentinella di comunità, qual è il suo operato quotidiano e la sua percezione della povertà e soprattutto in che modo quest’ultima si intreccia con altre forme di disuguaglianza?

«La percezione è che la povertà si accompagni sempre più ad un vissuto di sostanziale isolamento e di fatica a relazionarsi, di indebolimento del sostegno della rete familiare o amicale. Si riscontra, in generale, scarsa capacità di fare leva sulle proprie risorse e sulle opportunità di contesto esistenti, a cui si unisce una certa sfiducia nella possibilità di uscirne ed il progressivo depotenziamento dei propri punti di forza. I percorsi che sarebbe necessario attivare, non sempre chiaramente percepiti ed identificabili, sono comunque molto impegnativi, ma dato che i risultati non immediati, essi confliggono con l’urgenza di affrontare giorno per giorno i bisogni della ordinaria sopravvivenza, il che non lascia tempo per programmare ed attivare iniziative di più ampio respiro: questo alimenta la deriva verso l’opzione assistenzialistica e sottrae spazio alla prospettiva. La povertà, in genere, non è solo un fenomeno di natura economica, ma spesso dipende o deriva da povertà di contesto familiare, da debolezze di esperienze e di competenze, da disagi psicologici e sociali variegati. In passato la povertà si intrecciava essenzialmente con situazioni di scarsa “scolarizzazione”, con debolezza di competenze, fragilità dei contesti familiari di provenienza; oggi ciò è sempre meno vero: cresce la difficoltà di competere in un contesto di vita basato sempre di più sull’efficacia del sistema di relazioni, aumenta il disagio psicologico ed il senso di inadeguatezza, la percezione di essere “esclusi”, “scartati”».

Esistono varie tipologie di povertà, quali forme assume nella sua comunità? Può condividere storie vissute in prima persona?

«Certamente la povertà più evidente è quella di tipo economico che è, allo stesso tempo, l’effetto e la causa della scarsa scolarizzazione, e della debolezza di competenze e di profili professionali. Spesso anche frutto di scelte o esperienze negative che pregiudicano il futuro, di isolamento e solitudine, di inasprimento del contesto di vita sempre più competitivo e sfidante. Cresce sempre di più, però, la condizione di povertà e di stato di bisogno anche da parte di chi un lavoro/reddito ce l’ha, ma percepisce retribuzione/pensioni inadeguate o perché è afflitto da situazioni familiari e personali difficili da gestire (malattie personali o di familiari, conflitti e separazioni di coppie, indisponibilità di alloggi, ecc.). Sempre più ricorrente, sebbene in apparenza numericamente poco consistenti, sono le condizioni di disagio generate da contesti familiari di violenza verso donne e bambini; i fenomeni di ludopatia e di dipendenze varie, di sovra-indebitamento e di ricorso a prestiti di “strozzino”, forse anche perché queste problematiche trovano un supporto più specifico ed immediato da parte di altre organizzazione di  volontariato e di sostegno sociale. A ciò si unisce un crescente disagio derivante dall’invecchiamento mentalmente “non attivo” e spesso gravato da condizioni di salute precarie».

Come è cambiata la povertà nel corso degli anni nella sua comunità? Oltre alla diffusa crisi economica ed occupazionale e alla pandemia ci sono stati eventi specifici che hanno influenzato questa evoluzione?

«Oltre alle ragioni puramente economiche, la povertà ha assunto chiare connotazioni sociali, relazionali e psicologiche: dipendenze, scarse competenze; invecchiamento, sfaldamento della rete di protezione familiare, difficoltà ad accedere a cure mediche, difficoltà di inserimento e di partecipazione a sistema relazionali-affettivo positivi».

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In che modo la sua parrocchia e la relativa comunità risponde alle iniziative solidali e alle esigenze di coloro che vivono situazioni di disagio?

«Attraverso l’accoglienza, l’ascolto, la prossimità, la Parrocchia si impegna nel difficile tentativo di coniugare le risposte da dare alle “urgenze” ed ai bisogni primari pressanti (distribuzione viveri, pagamento bollette, spese mediche, ….) che viene ordinariamente presidiato e svolto – ed il cui limite è costituito dall’insufficienza delle risorse disponibili rispetto alle necessità espresse – con l’obiettivo di  stimolare e sollecitare le persone assistite (ove potenzialmente possibile) a compiere uno sforzo di autovalutazione, di lettura approfondita di se stesse ed appropriata comprensione delle cause di fondo alla base della loro condizione di disagio, delle risorse personali e di contesto a cui si può fare ricorso, allo scopo di accompagnarle nell’individuare e “progettare” possibili percorsi di superamento “strutturale” dello stato di bisogno e di disagio sofferto. Non è questo, tuttavia, un impegno che possa essere svolto prescindendo dalla preliminare ineliminabile decisione dell’interessato di attivare siffatti percorsi, né senza la partecipazione ed il coinvolgimento di una adeguata rete di soggetti pubblici e del privato sociale che dispongono di risorse e competenze. Come ben si comprende, è un approccio che certo richiede risorse e dedizione, ma anche disponibilità di “strumenti” e “programmi” che le Istituzioni devono saper identificare e varare: insomma una visione “sistemica” delle povertà e delle azioni necessarie a superarle o ridurle. Il rischio, in assenza o carenza di un simile approccio, è che si finisca per ripiegare a svolgere un ruolo di precipua assistenza».

Quali sono alcune delle barriere culturali o sociali che rendono difficile l’azione del “chiedere aiuto”?

«Da parte degli assistiti la vergogna, la sensazione di stigma sociale, lo sguardo talvolta “compassionevole” o di commiserazione avvertito verso la propria condizione e talvolta persino il disinteresse generato dal sommario giudizio secondo il quale, infondo, lo stato di “bisognoso” è una posizione “di comodo” e persino anche “voluta”. Da parte delle persone a cui ci rivolgiamo per chiedere di collaborare a sostenere nei modi possibili le nostre attività di contrasto alla povertà, cresce il senso di sfiducia, di inutilità e forse anche il disinteresse per le iniziative di solidarietà, ma fortunatamente si tratta di posizioni ancora minoritarie. L’orientamento verso nuove emergenze (l’ambiente, la protezione degli animali, i diritti sociali, la pace, la ricerca, ….) tutte questioni assolutamente rilevanti e degne della attenzione, stanno catalizzando la sensibilità della società, distogliendo in certa misura lo sguardo alle povertà».

Qual è il giusto equilibrio tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva e pubblica nel combattere la povertà?

«Occorre proseguire nell’impegno di evitare che l’assistenza ottunda la resilienza e che la forza centripeta dell’urgenza dei bisogni faccia scivolare progressivamente verso l’assistenzialismo. Occorre, perciò, non demordere nell’azione di sollecitare ed accompagnare gli assistiti a porsi nella prospettiva di ricercare le vie di superamento della condizione di bisogno e di disagio in cui si trovano. D’altro canto, se anche da parte delle istituzioni le “povertà” venissero affrontate solo o essenzialmente come emergenza a cui dare risposte immediate in termini di pura assistenza (e si badi, ciò è comunque indispensabile ed ineliminabile, perché “nel lungo periodo” nessuno sarà più presente) rinunciando, però, ad adottare strumenti e politiche capaci di agire per  contribuire al superamento delle cause strutturali che ne sono alla base e favorire iniziative di attivazione della rete di operatori del sociale privato, la povertà riguarderà stabilmente le persone che ne soffrono».





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