Si può scrivere della Striscia di Gaza oggi? Si può provare a raccontare quanto accade, senza essere obbligatoriamente etichettati da una parte o dall’altra? E come ci vengono realmente restituite le informazioni provenienti da un luogo distrutto, dilaniato nell’anima e nei corpi, a più di un anno di distanza dal massacro del 7 ottobre 2023, data che delinea ancora un punto di non ritorno, con una reazione israeliana sempre più cruenta? Ad alcune di queste domande cercano di rispondere due recenti pubblicazioni. L’una ha per titolo Gaza. Il buco nero dell’Occidente (Futura editrice, pp. 213, euro 15), l’altra Gaza, la scorta mediatica (People, pp. 128, euro 15).
Il primo volume è scritto da Marcella Delle Donne, già docente di Sociologia delle relazioni etniche presso la Sapienza Università di Roma, e autrice nel 2021 per lo stesso editore di Voci dal conflitto. Israeliani e palestinesi a confronto. In questo suo ultimo lavoro, la studiosa intende offrire al lettore un punto di osservazione ben documentato riguardo l’importanza dello scenario mediorientale per l’intero pianeta, con uno sguardo rivolto in particolare ai molteplici interessi delle potenze mondiali in quell’area, e sul tentativo di costituire una “Grande Israele” che non comprenda soltanto l’annessione della Palestina, ma anche dei territori confinanti in Libano e Siria.
Nel saggio viene anche trattato lo spigoloso tema delle posizioni assunte dai governi occidentali nei confronti di Israele, che seppur criticato più volte per la violazione dei diritti umani nei territori della Striscia, continua a ricevere sostegno politico e soprattutto economico, attraverso l’invio costante di armi e finanziamenti, in particolare da parte statunitense.
Raffaele Oriani è invece l’autore di Gaza, la scorta mediatica, libro con il quale affronta un altro argomento molto delicato, quello riguardante la questione dell’informazione rispetto quanto sta accadendo in Medio Oriente, dopo aver preso la decisione di non collaborare più con la testata “Repubblica”, non condividendo la linea editoriale riguardo il racconto di quanto accade nei territori palestinesi.
“La lettera che scrivo ai miei colleghi di “Repubblica” il 5 gennaio 2024, per motivare le mie dimissioni – ci racconta – arriva dopo tre mesi dall’attacco a Gaza, dopo aver avuto la forte percezione che non si trattasse più di una guerra ma di uno sterminio, una sensazione cresciuta in me in queste ultime settimane”. L’analisi di Oriani sul sistema di comunicazione occidentale non lascia spazio a interpretazioni: “Il nostro apparato mediatico, i media europei e italiani, in questo anno è come se avessero offerto una sponda su un elemento fondamentale, la non distinzione tra guerra e sterminio, perché se si tratta di guerra possono esistere delle sfumature nel prendere posizione, mentre di fronte a uno sterminio esistono solo le vittime”.
Viene da chiedersi se in questi ultimi mesi qualcosa sia cambiato nella comunicazione internazionale. “Molti giornali europei e americani stanno aggiustando il tiro – continua Oriani – attraverso interventi di denuncia riguardo quanto avviene nella Striscia di Gaza; i giornali e telegiornali italiani molto meno, quasi nulla. In questi mesi il focus mediatico è stato sulle trattative per il cessate il fuoco, non sulle vittime che aumentano ogni giorno. Un chirurgo inglese che ha testimoniato davanti alla Commissione per la cooperazione e lo sviluppo del parlamento inglese ha parlato di 200.000 morti, di cui il 70% donne e bambini. Ma la grande stampa raramente ha parlato di questo, o della distruzione degli ospedali. E non ho mai letto neanche un editoriale a difesa dei tanti colleghi uccisi a Gaza in questo anno”
Inevitabile chiedere a Oriani, dopo la scelta di dimettersi per esprimere liberamente la propria opinione giornalistica, come riesca a muoversi ora da “cane sciolto”: “Ho creato un account X con cui continuo a monitorare la scorta mediatica a cui mi riferisco nel libro. E proprio il libro, attraverso molte presentazioni in tutta Italia, soprattutto nella provincia, è un prezioso veicolo per incontrare tante persone e ascoltare riflessioni collettive su quello che accade, e sul modo in cui viene raccontato. Penso alla chiesa della parrocchia di S. Giuseppe Lavoratore a Latina, dove lo scorso mese erano presenti almeno 400 persone, piene di domande, ma anche con il bisogno di esprimersi, di sfogarsi. Un dato su cui riflettere, perché non sarà il potere a fermare questa onda di violenza, ma la presenza delle persone, il loro impegno, l’indignazione che deve aiutarci a distinguere la vita dalla morte”.
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