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Veneto e spopolamento delle periferie, l’esperto: «Vanno attratti i giovani con lo studio e il lavoro, poi servono case»


di
Martina Zambon

Federico Della Puppa (Smartland): «Invertire la tendenza non è impossibile ma è problema complesso, da affrontare tenendo conto di tanti variabili». L’ipotesi di impigare «leve» diffrenti per le varie fasce d’età della popolazione 

Federico Della Puppa con la società di studi e analisi Smartland si occupa di valutazioni nel campo della rigenerazione urbana e del territorio: di come cambiano ma, soprattutto, di come possono cambiare i territori. 

Aree urbane e spopolamento, l’esempio più lampante sono le zone montante, ora è in dirittura d’arrivo una Legge sulla montagna, basterà?
«Nessun problema si risolve solo con una legge e, se parliamo di spopolamento, parliamo di un fenomeno di difficile contrasto».




















































Impossibile?
«No, non impossibile, ma essendo un problema complesso va affrontato tenendo conto dei tanti elementi in campo. Lo spopolamento viaggia secondo due variabili distinte eppure legate: il saldo demografico (ormai c’è un solo nato ogni tre decessi) e il saldo migratorio (quanti residenti arrivano rispetto a quanti se ne vanno). Per il calo demografico è chiaro che si tratta di un fenomeno di lunghissimo periodo che non si risolve, anche qui, con leggi, per quanto fantasiose. Si può aggredire il problema dall’altro fronte, quello del saldo migratorio».

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Come?
«I dati suggeriscono che è giusto procedere per fasce d’età. Ad esempio, le città con sedi universitarie attraggono giovani ma vivono anche un fenomeno di espulsione a causa dei prezzi del mercato immobiliari. Poi, però, per i cinquantenni e sessantenni, c’è un fenomeno di ritorno nelle città per poter avere un accesso più significativo, ai servizi, compresi quelli culturali che sono il barometro della vivacità in una città».

Torniamo alle aree interne, si scappa perché la prima scuola utile, così come il primo ospedale sono troppo lontani?
«Sì, il tema delle aree interne è difficile proprio per la carenza di servizi. Parliamo di territori molto diffusi, con piccole frazioni, dove i servizi molto più complicati. E lo sono proprio per la ridotta dimensione dei residenti che rende poco appetibile l’apertura di un servizio. Vale anche per ex aziende di Stato che ancora erogano un servizio pubblico come le Poste. Sta succedendo, per inciso, persino a Venezia, in centro storico».

Come se ne esce?
«Con una rivisitazione del modello dei servizi locali. Il primo alleato è il digitale, un esempio su tutti è lo sviluppo della telemedicina. Ma non basta, serve che le aree interne trovino il modo di offrire lavoro, vera pietra angolare per il ripopolamento. E possibilmente, un lavoro interessante. Non è semplice ma neppure impossibile. Alcune lo stanno facendo».

Quali?
«Come Smartland, ad esempio, stiamo lavorando nella zona del cratere laziale, quella del terremoto 2016. Da Rieti fino ad Amatrice. Gli accordi che Rieti sta facendo con la Sapienza e altri atenei della capitale per un decentramento forte di alcune funzioni punta all’attrattività sui giovani, il vero target a cui puntare contro lo spopolamento. Altro esempio virtuoso è Trieste, una città di 200 mila abitanti di cui il 10%, 20 mila, gravita attorno all’università e ai centri di ricerca. Così si rivitalizza la città ma a una condizione».

Cioè?
«Che i meccanismi del mercato immobiliare lo consentano. Questo è un altro dei nodi principali. Se le case hanno valori fuori mercato – e questo vale anche per la parte non residenziale, penso al commercio, ai servizi, agli uffici – ogni sforzo è vano. Le amministrazioni devono riuscire a gestire in maniera organica l’offerta della proprietà privata. Chiaramente non è affatto semplice. Si può partire, però, da piccole azioni che cercano di riqualificare non solo gli edifici ma proprio l’offerta soprattutto dei servizi».

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